Dalla nota IX -4, riferita al sostantivo "porta".
Le calcistiche muse e il fato s’amarono
un sabato pomeriggio, nel cielo d’Alberto. Non era una partita di campionato
come tante; era il derby degli scarichi, o della «cacca», per i tifosi, che
vedeva la perennemente gloriosa Migliavacca
scontrarsi con la rampante Cattaneo
Ecologia, fondata e finanziata da un concorrente diretto del suo munifico
sponsor.
Si giocava in casa della Migliavacca, ma unicamente secondo il
calendario, perché il campo era quello del Centro
Sportivo Telesio Tacchetti, che le due squadre gestivano in comune. Campo
spelacchiato come sempre, ma con le righe rifatte di fresco e, data
l’importanza dell’incontro, con delle bandierine nuovissime a sorvegliarne gli
angoli.
Sullo spalto (inutile usare il plurale;
ce n’era uno solo: una decina di gradoni allineati a uno dei lati lunghi del
terreno di gioco) v’era, per usare il linguaggio dei telecronisti, la folla
delle grandi occasioni: un paio di centinaia di persone, non tutte direttamente
imparentate, o in procinto di diventarlo, con i giocatori. Tra loro anche
Giovanni Bargeglio, quasi laureato in Scienze Politiche, aspirante scrittore e
praticante giornalista, incaricato dal giornale locale d’occuparsi di quel che
d’importanza men che locale accadeva in quella parte della città e nelle
contrade limitrofe. Sbadigliava, dopo una notte passata a seguire una seduta fiume
del Consiglio Comunale di Remenate Ontona e aver già scritto il relativo
articolo: «La differenziata della discordia». Più di lui, boccheggiava Emilio
Puddu, terzino sinistro della Migliavacca e garzone fornaio, giunto al fischio
d’inizio stremato dalla doppia panificazione del venerdì notte. Solito
compensare con una fenomenale velocità il limite di una statura non eccelsa,
Puddu quel mattino era sembrato indossasse delle scarpe di piombo mentre il suo
avversario, un biondino ricciuto e occhialuto, gli era sgusciato via da tutte
le parti.
All’ottantasettesimo si era sempre sullo
zero a zero. Risultato falso come Giuda, a cui la Migliavacca, in crisi di gioco e d’idee, era rimasta aggrappata
esclusivamente grazie alle prodezze di un Franz Tagliabue (v. nota VI – 17) in
versione saracinesca. Dopo un velleitario contrattacco della Migliavacca, spentosi prima ancora di
superare la metà campo, fu di nuovo il fetido biondino ad avere la palla sul
piede, quasi al limite dell’area. Fintò a destra e si buttò verso sinistra,
come in quella partita già aveva fatto con successo decine di volte.
Non quella.
Puddu, vistosi irriso, prima che superato,
con uno scatto di sardo orgoglio, si allungò in tutti i suoi centosessanta e
due o tre centimetri e riuscì con la punta della scarpa destra a toccare il
pallone. Non con tanta forza da spedirlo in una direzione precisa, ma
abbastanza da levarlo all’avversario, che pensava d’aver già via libera verso
la porta, e farlo rotolare dalle parti di Alberto.
L’urlo del geometra Ruotolo, un passato
da riserva nelle giovanili della Cavese e un presente da impiegato della Migliavacca Spurgo Pozzi Neri, oltre che,
soprattutto, da allenatore della squadra sponsorizzata dalla medesima azienda,
si alzò acutissimo: «Fuoriii! Sbattila fuoriii!»
Alberto controllò con il piatto destro
il pallone e fu lì per spedirlo in tribuna, obbedendo al perentorio ordine
ricevuto, ma, poi non seppe bene spiegarsi il perché, non lo fece.
Alzò lo sguardo, vide che tra lui e la
porta della Cattaneo c’era quasi
tutto il campo, ma non più di tre o quattro avversari, e partì palla al piede
in quella direzione. Vinse di pura forza un primo contrasto, svellendo il
pallone dai tacchetti dell’avversario che lo aveva intercettato.
Proprio sul cerchio di centrocampo,
sullo slancio, superò un altro difensore, che riuscì ad afferrarlo per la
maglietta, ma non a trattenerlo.
Fece altri due o tre passi poi quasi si
arrestò, convinto di non poter continuare oltre in quell’azione solitaria.
Cercò con gli occhi Ferrari (v. nota VII
– 8), che gli era sembrato lo avesse seguito; non lo trovò.
Davanti a sé aveva un’unica maglietta
giallo-verde; quella di Pierobon, secondogenito di Pierobon Magazzini per Tutti
(v. nota VI – 17), poderoso centravanti tanto famoso per la sua abilità nel
colpire di testa quanto famigerato per il suo controllo di palla. «Eh; aveva
proprio i piedi a tombino.» Era liberissimo. Troppo; tanto da essere in
fuorigioco.
Alberto, insomma, era arrivato fi n lì
da solo e da solo doveva continuare.
E continuò. Si liberò di un altro
avversario, che nel frattempo lo aveva raggiunto, con una veronica che non gli
era mai riuscita neppure in allenamento. Superò un altro difensore con un corto
e calibratissimo pallonetto; una perla come forse ne aveva infilate tre, in
tutte le partite giocate fino ad allora.
Non si era quasi mosso, però; la porta
restava lontanissima.
La difesa avversaria era rientrata al
completo. Pierobon era tornato a essere marcatissimo; Ferrari si rotolava
tenendosi uno stinco. Il resto dell’esausta Migliavacca
aveva semplicemente rinunciato ad attaccare.
Alberto, con le gambe ormai di cemento,
si buttò ancora in avanti. Tre, quattro falcate. I suoi occhi, velati dalla
fatica, non videro l’avversario che gli si era parato d’innanzi; solo i suoi
calzettoni a righe azzurre e amaranto, conficcati nel prato come due paletti.
Bastarono a distrarlo. Incespicò.
Tutto sembrò perduto. Soprattutto il
pallone che gli rimase indietro.
Quello, proprio quello, fu l’istante.
Risuonò la bestemmia del geometra
Ruotolo, ma ci sarebbe dovuta essere una musica d’archi.
In un gesto tutto d’istinto, Alberto sporse
il tallone, mentre continuava a correre in avanti. Ne uscì un altro pallonetto
che scavalcò anche questo difensore: un colpo come solo ne aveva visto fare, e
solo una volta ciascuno, a Pelé e Maradona (v. nota VII – 5).
Il pallone, esaurita quella traiettoria,
gli atterrò alla distanza giusta perché, dopo averlo lasciato rimbalzare quel
tanto, potesse calciarlo scaricandovi sopra tutta la potenza del suo piedone
calibro 45.
Non ne risultò una cannonata; piuttosto
un colpo d’obice che, partito da una decina di metri davanti il vertice
sinistro dell’area, salì altissimo, prima di scendere, davvero come una bomba,
superare di un soffi o le mani protese del portiere, e andare a infilarsi
nell’angolino opposto della porta avversaria.
E fu il silenzio.
Non urlò con le braccia al cielo,
Alberto, com’era solito fare dopo uno dei suoi rari goal. Non urlarono i suoi
compagni né emise alcun suono la folla.
Tutti, al Telesio Tacchini, rimasero immobili, a bocca aperta, sopraffatti
dall’enormità di quanto avevano appena visto accadere.
Si fermò anche il tempo, almeno nella
mente di Alberto, nell’estasi dell’immagine, che gli era rimasta congelata
nella retina, di quella palla che entrava in rete ...
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