sabato 11 giugno 2016

BENEDETTO LOCCHI

Fabbro e decostruttore dialettico




(Guastengo, 24  novembre 1632; Guastengo, 28 ottobre 1704).  All’ombra delle guglie tardo gotiche di San Sicuro, sulla piazza centrale di Guastengo che ora gli è intitolata, una targa ricorda il portico che ospitava la bottega, già appartenuta al padre Giovanni, in cui Benedetto Locchi  passò la propria vita a concepire e fabbricare 


serrature e lucchetti. Per il resto, di suo si conosce poco altro. Nulla, ad ogni modo, che possa spiegare l’originalità del suo pensiero meglio della diuturna ricerca della complessità insita in quel suo mestiere; delle lunghe ore trascorse in solitudine a limar metalli e congegnar meccanismi in una costante lotta, tutta mentale, contro i grimaldelli degli scassinatori.  Dopo aver risposto alle eterne questioni dell’Essere già il 31 maggio 1658, con l’ammirevole pragmatismo del celebre c’è quel che c’è, primo degli aforismi da lui annotati, a margine del libro mastro della propria bottega, ed avere espresso il proprio scetticismo sulle possibilità del linguaggio con il quasi altrettanto universalmente noto se non c’è, mica si può dire che c’è, è soprattutto intorno alle natura del mondo e, in questo, delle relazioni umane, che si appunta la sua ricerca. Natura duplice, fatta di interno e ed esterno; di bene, ordinato e confinato, e male caotico, infinito e senza altro scopo che quello di penetrare il confine del bene per portarvi lo scompiglio.  Relazione umane che di questa natura sono conseguenza ineluttabile e fedele specchio; definite dalla fondamentale opposizione tra chi sta dentro e chi sta fuori. Opposizione, si badi bene, necessaria; intrinseca al concetto di confine, di frontiera,  e quindi di realtà.  Non solo: lotta incessante che è il primo motore della storia; fonte di ogni possibile umano progresso. E’ questo il tema centrale della prima delle lettere, indirizzate  tra il 1690 ed  il 1693 al figlio Ludovigo, che, dopo aver deciso di seguire la tradizione familiare, si  recato a Stjünsund, in Olanda, per impadronirsi dei segreti delle moderne serrature che in quella località erano fabbricate. Hai da sperare che sempre vi sieno ladri, e tanti,  che vien dalle loro mani il pan del mastro chiavaio, è il memorabile incipit di questo vero e proprio testamento spirituale, che si amplia fino a delineare quella dialettica del lucchetto, cui moltissimo deve quella hegeliana e per cui  il nome di Locchi compare, oggi, su quasi tutti i manuali di filosofia: E quanto più furbi loro [i ladri], tanto più ingegnose diventino le ruote e dentute tue chiavi. Sono queste stesse lettere, poi raccolte e rese pubbliche da Giovanni nel 1695, a costituire l’Elogio dell’intolleranza (che va pure sotto il nome, appunto, di  Lettere sull’intolleranza), unica opera che Locchi ci abbia lasciato e che avrebbe potuto avere un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero occidentale*.  Condizionale reso necessario dalla decisione della Chiesa che, vedendovi un’esaltazione delle propria intransigenza post-tridentina, già nel 1696  lo mise nell’infelice Index librorum legendus (l’indice del libri che andrebbero letti) , di fatto limitandone oltremodo la diffusione.

*Non usa condizionali, invece, il professor Luigi Giacinto Strambi. Nei 16 volumi della sua Breve introduzione al pensiero locchiano, (Cavit, Piccola Biblioteca delle Scienze, 1993) il grande studioso Commiseratese, purtroppo recentemente scomparso, evidenzia il debito nei confronti di Locchi di quasi tutta la filosofia europea a lui posteriore. Detto di Hegel, rimarcata l’influenza di Locchi su Nietzche, sul primo Wittgenstein e su Heidegger, il prezzo è giusto se giusto è il conto che fa del tempo, anche Derrida e il decostruzionismo trovano una felice anticipazione negli aforismi locchiani: Quella [serratura] che non si conosce, si smonti

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